Ragazza in Raval che mi ha gentilmente concesso l’uso di questa fotografia che la ritrae.
Tante volte mi chiedo se quelli della mia generazione sono riusciti davvero, poi, nella difficile impresa di costruire un mondo diverso. Eppure noi quel mondo lo volevamo davvero. Volevamo un mondo libero dai pregiudizi, un mondo nel quale tutti avessero quelle pari opportunità che, si diceva, erano mancate ai nostri genitori. Volevamo un mondo nel quale scivolare originali e fluidi tra le strade di città vive e solidali. Soprattutto, volevamo costruirlo noi quel mondo. Purtroppo, però, pensavamo di farlo con quegli stessi strumenti che avevamo utilizzato per immaginare il nostro rifugio su un albero.
La scorsa settimana sono stata a Barcellona. E’ trascorsa così questa mia lunga estate, ripercorrendo quegli spazi nei quali mi sono fermata almeno per un po’, alla ricerca di qualcosa. Dopo aver attraversato in lungo e largo le sottili fenditure che legano il mare alle colline, ho preso un aereo e ho raggiunto una delle mie migliori amiche che vive a Barcellona. E, come spesso accade quando riesco a trascorrere del tempo in città, che oramai credo sia il mio “elemento”, per usare un’immagine mindfulness, ogni mia certezza finemente costruita nell’arco di questi mesi di dura resistenza nell’ostile provincia del NordEst, si è irrimediabilmente sciolta.
Ci sono posti, infatti, e sicuramente Barcellona è uno di questi, che si tengono in piedi sulla scia di un’illusione. Sarebbero dei giochi illusionistici, infatti, quelli che attirano migliaia di persone a trasferire in una delle città dove quel senso di contraddizione e precarietà che ha connotato la mia generazione, si fa più forte. C’è chi a Barcellona, infatti, ci si trasferisce per lavoro. Eppure si guadagna poco rispetto alle spese che bisogna sostenere per sopravvivere. C’è chi, invece, ci si trasferisce perché è una città “opendminded”. Ma chi lo pensa ignora forse il suo cuore retrivo e catalano o le recenti proteste contro i turisti. E allora perché la gente ancora insiste nel volersi trasferire in una delle città dove l’addensamento demografico e la gentrificazione ne stanno deturpando il volto?
A volte mi viene da pensare che noi, quelli della mia generazione, non siamo mai riusciti a scendere dalla casa sull’albero dove ci eravamo immaginati da ragazzini. Constatazione che potrebbe suonare come un rimprovero. In realtà credo che in questa posizione ci sia un aspetto geniale. Se fosse questo, infatti, il modo migliore per cambiare il mondo? Salire su un albero, senza lasciarsi incastrare.
Come ho detto più volte tra queste pagine digitali, sono cresciuta immaginando la fuga più rapida dal piccolo borgo selvaggio dove sono nata. Mi chiedo spesso come sarebbe tornarci a vivere adesso, in quel luogo dove le signore ancora siedono davanti alle case in attesta che passi qualcuno a distrarle da quegli antichi rumori nel cuore nei quali sono invecchiate.
Tornando a Barcellona ho capito che io non volevo fuggire dal Borgo, ma dalla possibilità di restare anche io incastrata in uno di quei rumori sottili, eppure insistenti, echi invisibili di una vita passata e sepolta che torna a farsi sentire come soffi di fantasmi tormentati. L’ho capito perdendomi con lo sguardo tra le stanze che si intravedevano oltre i balconi del palazzo di fronte quello in cui ho alloggiato. Palazzi alti, con finestre alte e nude, dalle quali si intravedeva lo stralcio di una quotidianità a volte pulita, a tratti confusa. O forse semplicemente di una quotidianità ancora tutta da costruire. Come quell’immagine di un mondo migliore che ci insegue da quando, da ragazzini, ci arrampicavamo su un albero nel tentativo di intravederlo.
Ma allora eravamo troppo giovani e a costruire le case c’era il rischio che ci crollassero in mano. Ora siamo grandi, siamo scesi dagli alberi, eppure nella testa portiamo ancora il ronzio di quel vento che prova a trascinarci ancora da qualche altra parte.
Ilaria Paluzzi